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Rapporti malsani - Unhealthy Relationships pt.2

  • Immagine del redattore: Virginia Barchi
    Virginia Barchi
  • 24 feb 2016
  • Tempo di lettura: 2 min

Viviamo di relazioni banali, di cui ci serviamo per appagamento, non per interesse o per crescita. Viviamo di vicoli ciechi, fermarsi e guardarsi senza sapere dove andremo a finire, senza sapere se abbiamo intenzione di scavalcare i muri per ritrovarci a camminare ancora insieme per i quartieri di questa città. Ci ritroviamo spesso vittime dei silenzi e della paura di fare passi falsi, ma più spesso vittime della paura di apparire deboli, anche davanti a persone con le quali dovremmo sentirci liberi di essere quello che siamo, senza timore di piangerci addosso.​​





Viviamo di unioni formali, date dalla necessità che sentiamo di non rimanere soli, che dicono che è brutto, che è triste. Viviamo di rapporti nati nei modi più strani, da amicizie lontane che si riavvicinano per scoprire interessi nuovi e condivisioni piacevoli, rapporti nati nei modi più insensati, in cui l'unione sembra essere la forza della consolazione, per cui la disintegrazione di una vita si celebra in un abbraccio inaspettato.





La fugacità del tempo, saltare le tappe, arrivare al dunque, scoprirsi inadeguati in un'intimità inaspettata, oppure alle volte scoprirsi a proprio agio in situazioni nuove ed eccitanti, scoprirsi stranamente tranquilli. Le confidenze su quello che siamo l'uno per l'altra, la paura di prolungare, oltre il limite accettato dall'altro, un abbraccio sentito, la voglia passeggiare vicini.




Ci perdiamo nei fraintendimenti del futile imbarazzo tra amici, ci perdiamo nelle telefonate per declinare un invito a cena, ci perdiamo nei messaggi di buon compleanno, nei passaggi in motorino nelle sere d'estate, nelle corse per non perdersi gli attimi, nei tormenti degli amanti silenti. La serenità che si perde nei fraintendimenti della vita. Ci perdiamo, ci ritroviamo, ci stringiamo, ci baciamo, ci sentiamo vicini pur essendo lontani, ci scambiamo sguardi che valgono più di mille parole. Almeno ci illudiamo che sia così, perché magari da una parte quello sguardo si traduce in voraci tornadi di emozioni e ricordi, mentre dall'altra parte rimangono sguardi silenti, sguardi che restano a guardare, senza l'intenzione di tradursi in frasi d'affetto.





Se provassimo a tradurre quegli sguardi, se provassimo ad esprimerle, tutte queste infinite richieste di affetto, queste infinite voglie di stringersi forte, e guardarsi negli occhi, e rimanere coi volti vicini per sentire il calore dei baci, se provassimo a​​ tradurre tutto ció, ad esprimerci sinceramente, costruendo puzzle coi pezzi di vita condivisi, probabilmente a quest'ora saremmo tutti più sani. Probabilmente a quest'ora non avremmo passato le ore a risolvere enigmi su enigmi, a cercare risposte silenti nei gesti e negli atteggiamenti di chi ci incuteva timore. Probabilmente a quest'ora saremmo tutti più sani di mente; dovremmo correre a prendere quello che desideriamo, pur di ricevere riscontri negativi, pur di non rimanere in attesa di qualcosa che forse non avverrá mai.





Paura di affrontarsi, timore di dirsi come stanno davvero le cose, cosa pensiamo l'uno dell'altra, come vediamo l'uno l'altra e viceversa. Paura di essere espliciti, sinceri fino all'osso. Paura di avere qualcosa per cui discutere, timore di doversi esprimere per quelli che siamo, paura di doverci esporre. Finiamo per fare buon viso a cattivo gioco, a mantenere irreali equilibri che un giorno si riveleranno esser sempre stati instabili.




La precarietà dei rapporti che viviamo si esplica nei litigi in cui ci scoprono i nostri lati più nascosti, si esprime nella repressione che esplode ad un certo punto. La precarietà degli equilibri che fingiamo di poter controllare, la folle stabilità delle relazioni malsane. Farsi male fino a morire dentro, che l'importante sembra essere cosa facciamo, non quello che pensiamo, come ci atteggiamo, non quelli che siamo veramente.




Morire dentro fino ad esplodere, riversare il marcio che ci siam tenuti dentro per troppo tempo. ​​Che se non era marcio quando abbiamo iniziato a trattenerlo, è marcito col tempo. Il negarsi per quelli che siamo per paura dei giudizi negativi, il negare ciò che proviamo per paura delle conseguenze, o più spesso delle apparenze.


Trascorrere il tempo a pensare come potrebbe essere piuttosto che lasciarsi andare e mettere in pratica gli impulsi repressi. Che ho voglia di abbracciarti, e lo faccio, che ho voglia di baciarti, ma non vorrei invadere la tua intima barriera. Barriere di privazioni, barriere di "sarebbe meglio di no", scudi di scuse messe lì a complicarci le cose, che reprimersi è più difficile che dare sfogo ai nostri impulsi spontanei.


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