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Nel piatto

  • Immagine del redattore: Virginia Barchi
    Virginia Barchi
  • 26 dic 2018
  • Tempo di lettura: 2 min

“Tu sputi nel piatto che hai davanti, mi dicevano.” “Ma allora il piatto era ricco.”

La luce entra da quella grande finestra in mezzo al salone in obliquo, quasi a non voler disturbare, timida nell’intromettersi nei discorsi che pian piano affrontiamo, scaldando sempre più l’aria di confidenza e calore, ora che è densa di fumo. La brace ne ha creato tanto da confonderlo, controluce, con lo sporco di un vetro di un piccolo rifugio di campagna, davanti al quale una collina si erge a nascondere il tramonto che giungerà tra qualche ora.

La luce entra, si fa il suo giro per la stanza, e sul più bello, mentre prendo confidenza anch’io e mi espongo nel pronunciar le mie opinioni, dando loro una forma più o meno comprensibile ai miei interlocutori, convitati a questo pranzo di festa, mi accarezza il viso, come a rincuorarmi, a ricordarmi della sua presenza.


La luce entra e pian piano cala, come l’attenzione durante il racconto dell’opera di Janàcek, da cui emerge l’importanza della figura di donna. In questa, inaspettatamente, individuiamo un’immagine capace di dar vita, nell’immaginario di chi vogliamo coinvolgere, al progetto che abbiamo in mente, ancora intriso della confusione tipica delle idee appena nate, commistione di sensazioni che con la parola voglion nascere ma sono ancora cieche, pervase dai suoni che le han suscitate.

La luce si appoggia piano su un pianoforte impolverato, spia di libri ricolme le buste sparse per la grande sala, tutt’intorno, nel suo perimetro, su quella panca forse rubata da qualcuno, tempi or sono, in una chiesa, che salta all’occhio appena si entra, prima del camino su cui in bilico - eppure in perfetto equilibrio - un ramo d’ulivo reduce dalla potatura, poggia.

La luce entra, e prima d’arrivare a noi riuniti attorno ad una tavola imbandita di pietanze proibite fuori da un giorno di festa, si posa su pezzi di formaggio disposti in senso orario dal più delicato al più deciso dei sapori, il miele di castagno con essa si accende di un colore intenso, mentre esala da quel barattolo il suo odore com’anche quello del tartufo che nel vetro e nella ciotola con stracciatella e funghi m’invita a mangiarne senza sentirmi sazia.



La luce continua a penetrare nella stanza che ci accoglie, attraverso il vetro di quella finestra, verso cui guardiamo alla ricerca di ispirazione durante i nostri discorsi, incatenati l’uno all’altro fino al momento del caffè, per quattro prima, per sei poi.

Nella prospettiva di un cane da compagnia, ne arriva poi uno all’uscio di casa della stessa razza che ci eravamo immaginati, a cui lasciamo gustare l’avanzo della nostra carne cotta nel camino all’angolo della stanza.

La luce è ormai sparita da un pezzo, salutandoci col rosso di un tramonto che ha lasciato in controluce la sagoma di un abete ancora giovane all’altezza della curva della strada bianca che mi conduce poi a casa.


Così fa pressione un polpastrello sul bottone di una presa, e la cucina assume un aspetto nuovo mentre la conversazione continua a mantenere la sua piega, e su un tovagliolo rimane impresso, accanto al seme di un dattero, l’abbozzo di un progetto ancora da sviluppare.



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