top of page

Come panni stesi

  • Immagine del redattore: Virginia Barchi
    Virginia Barchi
  • 9 dic 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

La vita oscilla al ritmo di un vinile visto da sdraiati.

Lo appoggio piano coi polpastrelli passati velocemente sui pantaloni ancora umidi appena ritirati da uno stendino lasciato aperto in terrazza da uno dei miei coinquilini, che ha ritirato di fretta i vestiti mentre era in partenza; direzione casa.

Mi sono chiesta se i fuori sede abbiano mai sentito come propria la casa che hanno abitato per anni, quella in cui sono cresciuti, si sono fatti le loro scopate da ventenni. Mi sono chiesta se abbiano sempre dato più valore alla casa dove ogni tre mesi tornavano per le grandi abbuffate in famiglia, col pacco di sigarette volontariamente lasciato nella città di partenza e la camicia che tornava stirata al ritorno, paradossalmente. Forse è perché io non sono mai tornata nella camera dove sono cresciuta, quella con le figurine sbiadite sulla testa del letto, quella con la federa con snoopy ed i quaderni delle elementari ancora a prendere polvere nello scaffale più in basso di una libreria a momenti cedevole eppure così solida nella sua maestosità, da coprire con classe quelle pareti che non vedono la luce da una ventina d'anni.

Mi ricordo della mia libreria da adolescente, divoratrice di parole e di ogni libro riuscisse a sfamare la voglia irrefrenabile che avevo di dare una forma ai sentimenti che man mano vivevo, per capire se altri oltre me ne avessero mai sperimentati di simili. Mi accorgo di come ora sia finita a descrivere i miei senza pensare al conforto che mi darebbe sapermi simile a qualcuno capace di comprendermi. Mi accorgo di come ora mi basti descrivere i miei stati d'animo a me stessa per stare meglio. Torno al ricordo della mia libreria così razionalmente ordinata, coi libri della scuola, ordinati per colore, mai per altezza, o in scomparmenti in base al grado di apprezzamento, da infondere un'armonia che ora non riesco a raggiungere guardando le pile di libri accantonati di esami universitari appena superati.

Mentre rapido mi attraversa la testa questo ricordo, un mio passo genera un'immagine di me riflessa nello specchio componibile appeso al muro della mia stanza dalle pareti gialle di vernice. Quell'immagine mi turba ogni volta, ricordandomi di come non mi piaccia e di come se ci penso riesco infine ad accettarmi. Quell'immagine che a tratti mi sta bene, e a tratti mi disgusta. Tiro giù dall'appendi abiti un vestito rosso che indosso d'estate, specialmente in casa, visto lo spacco importante che ha su un lato. Lo indosso senza pensarci troppo, senza pensare alle pieghe che dopo l'ultimo lavaggio vi si sono arenate sopra, nonostante i tentativi fallimentari di stenderlo in maniera ottimale. Con gli abiti più piccoli funziona sempre, e questo mi ha liberato dalla schiavitù moderna di dover sottoporre gli indumenti ad interminabili ore di caldo che non fa altro che lievitare la bolletta della luce mentre il nostro tempo si perde nel tentativo disperato di far andare tutto liscio ciò che per forza di cose non potrà esserlo. Mentre lo indosso mi ricordo che le chiavi della macchina che ho cercato per svariati minuti sono nella borsa lì appesa.

Confido nel fatto di riuscire ad impiegare meno tempo nel trovare parcheggio di quanto non ce ne voglia per raggiungere il locale in cui ho appuntamento con due mie care amiche. La musica alla radio sembra l'unico motivo capace di controbilanciare il tempo sprecato nel traffico di una città che a volte mi soffoca pur continuando a sorprendermi della sua indescrivibile estensione. Al tener su il braccio alzato col gomito poggiato sulla portiera mentre tento di rinfrescarmi, mi sovviene il ricordo di quanto gli piacesse baciarmi l'incavo dell'ascella quando estendevo le braccia verso l'alto per stiracchiarmi la mattina presto. Che lui ancora dormiva, e con gli occhi chiusi, come un cucciolo che cerchi la sua mamma brancolando nel suo buio, mi baciava piano. Quello era per me un segnale, come un permesso che potessi alzarmi, ed iniziare la giornata sembrava meno amaro, meno faticoso, come una spinta che ti sostiene su per tutta la giornata. Da allora non ho più avuto qualcuno che mi baciasse appena sveglia, l'unica coccola che mi restava era la colazione per cui avevo già apparecchiato la sera prima. Per un po' di tempo mi era anche bastato.

Mentre scatta il verde al semaforo ignoro una chiamata al cellulare, non sono solita cadere in tentazione. Al primo slargo accosto e col sottofondo delle quattro frecce inserite richiamo il numero non salvato. É del ragazzo della mia amica ma la voce che me lo comunica è la sua, che sembra distrutta dal progetto che sta portando avanti da qualche mese sulla bonifica di un area in periferia che vorrebbero riqualificare come luogo di aggregazione. Deduco senza che me lo dica che dovrò fare inversione di marcia.

Mentre attacco rincuorandola del fatto che non sarà un problema godere della compagnia reciproca in una serata più tranquilla, penso a quanto sia vicina al raccordo da poterlo imbocca per raggiungere a sorpresa il mio amico dei viaggi, quello delle mangiate insieme e dei sorrisi stuporosi per le curiosità che ci scambiamo su argomenti di ogni genere. Per non rischiare di scoprire una volta lì che è rintanato in qualche laboratorio a lavorare, lo chiamo prima di inserire la freccia a sinistra.

È appena rientrato in casa, mi aspetta con due buste della spesa sul tavolo da sistemare nel frigo.



Flow of thoughts 18 Giugno 2018


Comentarios


© Virginia Barchi. Proudly created with Wix.com
 

  • Instagram Basic Black
  • Tumblr nero tondo
bottom of page