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Il sapore delle tue parole

  • Immagine del redattore: Virginia Barchi
    Virginia Barchi
  • 20 lug 2016
  • Tempo di lettura: 2 min


Perdevamo tempo a rilegger quelle lettere che, seppur già marchiate di francobolli riciclati, non erano ancora mai state spedite.


Ne avevo una scatola piena. Una di quelle scatole in legno in cui ti vendono pregiate bottiglie di grappa. Di quelle che non potevamo permetterci.


Ma ai tempi erano di moda i mercatini vintage e ci andavamo sempre la domenica prima di pranzo.

Una volta ci abbiamo trovato quell’orrendo portafrutta che avevi deciso di portarti via. Mi dicevi che era per illuderti di avermi a tavola con te.


Ora ne sorrido, ma prima probabilmente facevo la permalosa; non sapevo stare al gioco.

Allora pensavo che mi avessi trasformata in un bene materiale, che potessi essere capace di paragonarmi a qualcosa di così superficiale.

Ora so che non è così. Ma vai a capire cosa andava a pensare la mia testa.


Perdevamo tempo a rilegger quelle lettere che non avevamo ancora trovato il coraggio di inviarci.



Forse era per illuderci ogni volta di poter congelare le cose. Che se ci fossimo detti qualcosa non potendo vedere la reazione che avrebbe provocato nell’altro, ci saremmo sentiti morire.

Ci saremmo rigirati nei nostri due letti mezzi vuoti a pensare alle rughe d’espressione che avevamo suscitato. Quindi alla fine niente.

La mia posta era piena solo di bollette che non riuscivo sempre a pagare. La tua era piena di riviste a cui eri abbonato da una vita ma che non aver mai il tempo di leggere.


Non che poi non ce le dicessimo quelle cose. Forse alcune sarebbero risultate più dolci. Forse le avresti apprezzate di più se ti fossero arrivate con la mia calligrafia piuttosto che attraverso il suono della mia voce.


No, la mia non è bella come la tua.

Insomma anche se non le spedivamo, non è detto che non ce le dicessimo quelle cose. Almeno io te le dicevo. Non so cosa scrivessi nelle tue lettere. Di sicuro il mio nome, almeno quello.

Mi piaceva quando lo pronunciavi tu.

Poteva anche non pronunciarlo nessun altro, a me sarebbe andato bene comunque.


Ricordo ancora che la prima cosa che mi hai detto dopo il tuo nome è stata che ti piaceva il mio. Già a quel punto potevi avermi conquistata.

Ma non ero quel tipo di ragazza quindi ci è voluto, se non molto di più, di sicuro qualcosa di molto diverso. Diverso da tutto ciò che fa arrossire una ragazza di solito.


Il fatto che in quella piccola valigia volessi infilarci quel portafrutta mi bastava come dichiarazione d’amore. Nient’altro. Nessuna parola dolce.


Ma le parole che pronunciavi erano la linfa con cui nutrivo questo mio sentimento.

Definirlo non avrebbe avuto senso.


Le parole, le tue.


Se le tue parole avessero un sapore sarebbe quello dei biscotti al cioccolato fatti in casa.


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