L'isola che non c'è
- Virginia Barchi
- 26 ago 2016
- Tempo di lettura: 10 min

Con uno zaino in spalla per ciascuno ed una borsa per i viveri, sbarcarono sull'isola alle dodici del mattino. Il sole era già alto e, poiché la strada che li avrebbe condotti alla casa col faro, ubicata in cima alla roccia, era poco accessibile, soffrirono quel primo approccio all'isola. Sistematisi nella stanza più grande di uno dei due appartamenti affittati ai turisti, provvidero ad unire i due letti singoli. Così facendo, essendo la stanza scelta la più grande, avrebbero potuto orientare i letti in modo da poter vedere il mare fuori dalla finestra una volta alzatisi. La grande finestra, come le altre della casa, aveva infissi bianchi e scuri verdi. La casa si componeva di due piani. Al pian terreno c'erano le stanze adibite a magazzino e usate come deposito per gli attrezzi. Al primo piano si sviluppava invece la casa vera e propria. Gli appartamenti sulla destra del pianerottolo erano destinati ai guardiani dei fari che, in due a mesi alterni, gestivano e controllavano l'isola, di proprietà dello stato. Un'altra scala conduceva al terzo piano, da cui era possibile accedere al faro. Entrare nel vano di vetro con la luce vera e propria era possibile solo dopo aver percorso un'altra scala a pioli. Altrimenti era possibile accedere all'esterno del faro; un terrazzo delimitato da una ringhiera nera su cui rimanere a contemplare la luna quando, alta nel cielo e piena, mostrava a tutti la sua bellezza riflettendosi nel mare...e ciò sembrava l'unica cosa da fare per rigenerarsi.

A meno che non si trovasse qualche impiego da svolgere per far passare le giornate, sull'isola non c'era molto da fare. Al mattino, la caletta più a sud era ben esposta e vi si poteva passare del tempo. La tendenza più comune era quella di stendersi a leggere un libro. Una volta che il caldo arrivava al punto di essere insopportabile, si poteva raggiungere la riva con indosso scarpe da mare e si poteva optare di indossare un paio di pinne. Si poteva anche decidere di partire per una nuotata e di circumnavigare, almeno in parte, l'isola. La prima spedizione dei protagonisti della nostra storia puntò verso est, alla scoperta di quel lato dell'isola che volgeva verso la piccola Pelagosa e gli scogli intorno. Dall'alto, una sera al tramonto, arrivati sino all'altura della roccia che avevano allora costeggiato a nuoto, i nostri personaggi avrebbero poi notato che, se avessero nuotato ancora per qualche metro, oltre quello scoglio appuntito avrebbero trovato, sosta che sarebbe stata certo gradita, una caletta di raro splendore. Gli bastò vederla dall'alto quella sera per capire cosa si erano persi.
L'indomani, nonostante questa scoperta, pinne ai piedi e maschera agli occhi, decisero di nuotare verso ovest. Superato il montacarichi che cadeva dritto sotto alla casa col faro, grazie al quale i guardiani trasportavano i rifornimenti ed il pesce appena pescato, continuarono a costeggiare l'isola. Sebbene il fondale fosse più o meno costante ed i pesci, seppur non molto variegati, molti nei diversi tratti, saltò loro all'occhio una particolare forma in uno scoglio che fece pensar loro che lì, molto probabilmente, ai tempi in cui gli austriaci avevano bombardato l'isola pensando fosse occupata dagli italiani, era caduta una bomba. Prima di arrivare a percorrere quel lato dell'isola per intero, avendola circumnavigata per metà, trovarono una caletta sormontata dagli scogli che, a picco, cadevano nel mare.

Sulle pareti di quegli scogli crescevano gli stessi agli selvatici, che si trovavano un po' ovunque nell'isola, riconoscibili per il loro stelo lungo alla fine del quale vi era un fiore tipico a palloncino, simile a quelli che i bambini si divertono a sradicare per soffiarne via i delicati petali e vederli volare in balìa del vento. Sfruttarono l'accessibilità di quella caletta, che sarebbe stata stretta se vi si fossero trovate più di tre persone, ed in cui si stupirono di trovare l'incarto in plastica di uno sfizio preconfezionato, per riprender fiato prima di tornare indietro. La corrente gli era contraria, perciò la nuotata di ritorno risultò loro più faticosa di quanto non lo fosse stato il primo tratto. Fortunatamente erano ben allenati ed avevano l'abitudine di nuotare, tanto che per uno di loro le pinne erano come un prolungamento dei propri piedi. Svoltasi così la mattinata, i nostri personaggi, o chi per loro, erano soliti riporre il libro, di cui metà delle parole eran già state divorate, nello zaino con cui avevano trasportato acqua e scarpe da mare. Così, si preparavano a rientrare in casa. La camminata non era un gran chè piacevole. Il primo tratto prevedeva una serie di tornanti in salita su terra e sassi sconnessi. Arrivati poi in cima, si potevano osservare tutti i punti dell'isola e ci si ritrovava accanto al punto in cui, un tempo (cent'anni prima) sorgeva una chiesa, poi abbattuta in seguito al bombardamento, che danneggiò senza distruggerlo, il faro. Arrivati in cima a questo primo tratto, nel corso del quale ci si poteva imbattere in panchine verdi che sarebbero state di certo utili a chi, imbattutosi nell'isola e stanco di camminare (per la vecchiaia, la scarsa agilità, il poco allenamento, o il sofferto caldo) avesse sentito il bisogno di riposarsi un poco, le scelte possibili erano due.

Ci si poteva imbattere in un piccolo sentiero (sconnesso anch'esso) che conduceva al lato sud dell'isola e su cui erano stati montati, per rendere il più autonoma possibile la vita lì, dei pannelli solari ed un'antenna che, suppone l'autore, funzionava da ripetitore. Da lì era possibile scorgere la caletta che i nostri personaggi si son persi nella loro prima spedizione a nuoto. Voltandosi poi, si aveva una visuale affascinante dell'isola. Non solo era possibile vedere la discesa (che descriveremo come il secondo tratto da percorrere per raggiungere il faro) ma anche l'ultima scarpinata per raggiungere la cima dell'altura su cui era ubicata la casa col faro. La visuale era affascinante, non tanto per l'idea della fatica fisica che suscitava in chi la guardava ma, piuttosto, per il fatto che era in quella direzione che il sole, arrivati ad una cert'ora, più o meno tardi, a seconda della stagione, decideva di tramontare.

Molto altro, su quel versante dell'isola, non c'era. Era però possibile dilettarsi a catalogare, se muniti di un erbario, purché fosse scritto in una lingua comprensibile, le diverse specie di piante che popolavano la superficie di quell'isola sperduta. Alcune, anche solo passandoci accanto e, per sbaglio, calpestandole, rilasciavano un odore inebriante tanto piacevole che, al ritorno da una delle solite passeggiate, uno dei nostri personaggi fu sorpreso a raccoglierne e, una volta in casa, non perse tempo a nascondere ognuno di quei ramoscelli, colti da piante diverse (con tonalità di verde ed odori diversi), in ognuno dei libri che aveva letto in quella settimana. La cosa non ci stupisce in quanto, al secondo tramonto sull'isola, quello stesso personaggio, trovatosi un posto solitario per ammirare il tramonto e scrivere dei suoi pensieri, aveva pensato bene di raccogliere un ramoscello di lavanda che aveva subito infilato nel suo taccuino in modo tale che, nei giorni seguenti, ogni qualvolta decidesse di appuntarsi un'emozione, sentiva, ed intensamente, l'odore di quella pianta. Così, ogni volta che apriva una pagina di un libro che stava leggendo, avendovi inserito, in una pagina particolarmente piacevole da leggere, che gli aveva suscitato il ricordo di una persona cara, una di quelle piante profumate, si rammentava non solo del tramonto cui aveva assistito il giorno in cui l'aveva raccolta ma anche, e per primo, di quel ricordo che le parole stampate sulla pagina che custodiva il ramoscello, gli suscitavano.

Procedendo sulla stradina in direzione del faro, superato il punto in cui un tempo sorgeva la chiesa, poi distrutta, come detto, da un bombardamento austriaco agli inizi del Novecento, iniziava il secondo tratto di strada. Quello era considerato, e non a caso, vista la discesa che si presentava, sia che lo si iniziasse a percorrere da un lato che dall'altro, ai passi di chi vi camminava, il tratto più piacevole da percorrere. Da lì era possibile vedere tutto il lato dell'isola che volgeva ad ovest; versante che scendeva più lieve di quanto non facesse quello opposto e su cui c'era una pista di atterraggio per elicotteri. A metà del sentiero si trovava una panchina, verde anch'essa come le precedenti. A quel punto del sentiero si dipartiva una stradina che scendeva sul versante scosceso e che conduceva ad una caletta, per raggiungere la quale era necessario che gli esploratori che vi si avventuravano possedessero un minimo di agilità utile ad intraprendere una ripida discesa tra sassi disordinati e mal messi. La caletta era chiusa, da una parte dallo stesso scoglio che proseguiva oltre la casa col faro e, dall'altro, da una grande roccia. Tra le due il sole calava, col suo ritmo, per tuffarsi nel mare quando si era fatto abbastanza tardi affinché potesse tramontare.

I nostri personaggi, che abbiam lasciato alle foglie profumate nei libri che avevano divorato, al primo approdo su quel versante dell'isola, rimasero stupiti nel constatare la presenza di cemento armato tra gli scogli che, come le assi di una cornice, abbracciavano il sole calante, incorniciandolo. Si dicevano che, probabilmente, nei tempo in cui non c'era lo stesso tatto che con gli anni l'uomo aveva (o sembrava aver) maturato nei confronti della natura, erano stati utili per la costruzione di pontili per l'attracco delle imbarcazioni che attraversavano l'Adriatico. Risalendo per quel sentiero c'era un sasso, isolato da altri, su cui uno dei nostri personaggi era solito fermarsi a leggere. Il nostro protagonista aveva notato che, quando il sole era ancora incerto sul da farsi e si preparava all'immersione nell'orizzonte, da quel punto era piacevole non solo godere del calore degli ultimi raggi del sole, ma anche la vista della luna che si preparava alla notte. Lei infatti, prima tutta timida e pallida, iniziava a sorgere guardando dritto negli occhi il sole. Poi, acquisendo coraggio, saliva un poco nel cielo e arrivava ad un punto in cui si sarebbe potuto tracciare una linea retta tra la cima del sentiero e lei (la luna) e si sarebbe potuto constatare che fosse perpendicolare alla linea che il mare tracciava all'orizzonte.
Il nostro personaggio poi, dopo aver scattato qualche foto alla luna che timida si affacciava nel cielo, percorreva a ritroso il sentiero per tornare a metà di quello che abbiamo descritto come il secondo tratto del percorso obbligato per raggiungere il faro. Quel levare le tende era, da parte del nostro personaggio, un modo per dire che non c'era alcun bisogno di mettersi troppo in mezzo tra il sole e la luna che, seppur timida, sembrava una moglie attenta pronta a controllare il sole prima della sua uscita di scena. Sembrava quasi che si affacciasse nel cielo come da una finestra, abbastanza in alto da poter godere anche lei del fascino del tramonto.

Alla fine del secondo tratto di strada iniziava il più arduo di tutti. Per poter scalare la cima su cui era arroccata la casa col faro infatti, era necessario percorrere delle rampe di scale i cui gradini però, erano ripidi e lunghi, come un'ombra che al tramonto si proietta in avanti e sembra non finire mai. Una volta arrivati alla casa, la cui disposizione interna dei muri e la suddivisione in appartamenti abbiamo già descritto in precedenza, c'era ancora molto da scoprire. Non solo si poteva notare la ripidità delle corde del montacarichi, tese tra quel punto e il fondale marino sottostante ma si poteva anche esplorare un altro punto della roccia da cui si potevano godere due panorami incantevoli.

Ma prima di passare a questa dolce descrizione, lasciate che vi spieghi come mai, nel piazzale antistante la casa ed in quello tra la casa ed il montacarichi, fosse così accentuato l'odore di pesce che, seppur possa essere considerato normale, era invadente sino all'inverosimile. Il guardiano del faro era solito, dopo averne pescato, aprire il baccalà con chissà quale tecnica per poi stenderlo, con le mollette che pur si adoperano per i vestiti al momento del bucato, tra un gancio ed un altro delle finestre del primo piano, che ho detto esser adibito a magazzino e quindi privo di abitazioni, sul lato dell'isola su cui i raggi del sole più battevano durante il giorno. E come panni da bucato appunto, li si ritirava prima del tramonto per paura che, con l'arrivo della notte, quelli potessero essere raggiunti dall'umidità che (inevitabilmente) sarebbe sopraggiunta sull'isola.

Proseguirò ora con la descrizione dell'ultimo pezzo dell'isola col quale potremo concludere la descrizione di questo che sembra, detta così, un puzzle, ma di quelli coi tasselli grandi, quelli per i piccini che ancora non hanno le capacità cognitive così sviluppate da poter trarre sufficienti informazioni da un tassello che abbia, sulla sua superficie, disegnato solo un piccolo tratto quasi indistinguibile dallo sfondo con cui è colorato. Procedendo in avanti una volta giunti al cancello, anch'esso verde, come le panchine e gli scuri delle finestre, si poteva costeggiare il lato della casa meno esposto al sole, su cui era costruita la porta d'accesso all'intera struttura. Più avanti si accedeva all'ultimo tratto di roccia calpestabile dell'isola. Vi erano stati costruiti un forno per poter cucinare all'esterno gli alimenti alla brace e tutti quei macchinari, per quanto semplici fossero in realtà, adibiti alla creazione della stazione metereologica i cui dati venivano giornalmente raccolti dal guardiano del faro che ne faceva rapporto, tramite opportune comunicazioni radio, a chi di dovere sulla terra ferma.

L'incantevole vista a cui accennavo si poteva gustare in due momenti della giornata. Prima del tramonto, in quanto, essendo il punto più ad ovest dell'isola ed il più elevato, non vi erano elementi di disturbo tra l'esploratore ed il tramonto ed era quindi possibile, da quel punto, accedere ad ogni sfumatura del cielo senza interferenza alcuna. Inoltre, tempo dopo il tramonto, quando la luna era già alta nel cielo diventato abbastanza scuro da riuscire ad ammirare già qualche stella, era possibile godersi un altro scenario altrettanto, se non di più, bello. La luna, ora non più timida ma sicura della sua importanza, si rifletteva nel mare a creare, al pari del faro, una scia luminosa che incantava, ne son sicura, anche gli occhi di chi, dal pelo dell'acqua, nella sua imbarcazione, in quella scia luminosa vi si ritrovava immerso. L'analogia tra la luna ed il faro creava un'armonica composizione agli occhi di chi, munito di una macchina fotografica, era pronto ad imprimere quella vista in uno scatto.

Talvolta la luce emanata dalla luna, e di certo esaltata dal suo riflettersi nel mare, era talmente forte da rendere difficile agli occhi dei nostri personaggi l'individuazione del fascio luminoso che, costantemente, emergeva dal faro. Tanto era difficile talvolta individuarlo da far sorgere in loro il dubbio che non fosse acceso. La sera sull'isola c'era ben poco da fare se non, coperti da una felpa leggera, uscire per mirare qualche stella, sperando ce ne fossero di cadenti e starsene a godere del silenzio di quel luogo così sperduto e lontano da ogni forma di civiltà e popolato da nessuno se non dai nostri personaggi e, naturalmente, dal guardiano.

A qualsiasi ora del giorno e della notte poi, si poteva accedere al faro e starsene a guardare il mondo da lì su, incuranti di qualsiasi preoccupazione che, una volta tornati alla realtà, ci avrebbe angosciato fino ad opprimerci. Ma per ammirare la bellezza di quel posto, per apprezzarne a pieno il brusio del silenzio, interrotto soltanto dal pacato infrangersi delle onde sugli scogli, era sufficiente anche soltanto, spente tutte le luci nel proprio appartamento, affacciarsi alla finestra e guardare fuori. Come qualcuno di voi lettori avrà intuito, quel viaggio non era altro se non una metafora, eppure reale, di quello che era il percorso individuale che ciascuno degli esploratori che approdavano all'isola aveva intrapreso e cercava di completare attraverso quella permanenza. Quindi, non era poi tanto la lontananza dagli altri ed il silenzio inquietante a far da padroni ma, piuttosto, a tirar le somme, era il sapere di riuscire, in quell'ambiente, a completare quel viaggio dentro ognuno di noi grazie al quale saremmo tornati a riva con occhi e atteggiamenti diversi.

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