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Ti conosco come le mie tasche

  • Immagine del redattore: Virginia Barchi
    Virginia Barchi
  • 2 ott 2017
  • Tempo di lettura: 4 min



Il rumore generato dai passi sugli ultimi tre gradini prima del portone era solito destare Diego dal suo sonno leggero. Lasciava la cuccia non prima di essersi stiracchiato per bene sul tappeto steso in mezzo alla stanza. Raggiungeva l'ingresso salterellando, per poi sedersi ad aspettare che la porta si aprisse.

Alice aveva il tempo di sfilarsi la giacca e di posarla prima che il suo cucciolo le saltasse addosso con la gioia che aveva accumulato nelle ore di attesa.

Camminava al buio in corridoio, fermandosi solo per sfilarsi le scarpe, appoggiandosi col gomito al muro per tenersi in equilibrio. Accendeva la tenue luce della lampada a terra mentre con l'altra mano teneva le scarpe da cui aveva appena liberato i suoi piedi stanchi.

Si spogliava lentamente per tenersi ancora indosso il brivido di quanto vissuto poco prima. Appoggiava delicatamente gli indumenti sulla gruccia, per ridurre al minimo la variazione del profumo impressovisi nel loro ultimo abbraccio. Sembrava quasi che ogni volta aveva paura che non ne avrebbe vissuti altri o, qualora si convinceva del contrario, era spaventata all'idea di non sapere quando sarebbe avvenuto.


Si lasciava cadere a peso morto sul materasso basso. Ad accoglierla c'era già Diego, steso ad occupare metà del letto. Spesso si addormentava senza rendersene conto per poi svegliarsi per cena senza fame alcuna. Altre volte restava per ore in silenzio a guardare il soffitto. Con una mano sui seni e l'altra ad arricciarsi i capelli.

Concedersi del tempo per lei voleva dire rimanere nella penombra di un abatjour, studiare le ombre degli oggetti proiettati sulle pareti rivestite di carta da parati a fiori, studiare le sue ombre.

Era ormai arrivata ad un punto tale da credere che le ombre di ognuno rimarranno a guardarci fisse negli occhi, era convinta che chiuderli non era un segno di sconfitta ma indice di un'analisi che ognuno è chiamato a fare per trovare la forza di non provare paura nel riaprirli.

Così giustificava i sonni in cui cadeva, interrotti dalle chiamate della sua terapeuta per gli aggiornamenti della giornata.

L'unico nota negativa che percepiva al riaprire gli occhi, liberi da ogni tipo di trucco ormai da anni, era quella macchia di vernice sul soffitto. Nelle rare volte in cui qualcuno entrava in stanza e le chiedeva cosa ci stesse a fare una macchia così sul soffitto, rispondeva che l'inquilino precedente doveva essere un matto, o un artista con molta fantasia e che in fondo ci stava bene. Diceva che se avesse avuto il tempo di sistemare i danni di chi c'era stato prima di lei, avrebbe di certo provveduto a risistemare quella carta da parati. Ma ciò che rimaneva sulla punta della lingua, non detto, era che non avrebbe mai cancellato quella che lei riteneva un'opera d'arte.

Oltretutto non ne avrebbe mai cancellata una sua, perché sarebbe stato equivalente al rinnegare una parte di noi che ha voluto, in un giorno qualunque, prendere aria ed uscire allo scoperto.

Che poi gli altri potessero non capire era qualcosa che la lasciava del tutto indifferente.

Le chiamate con la terapeuta erano sempre più brevi e questo le bastava.


Diego iniziava ad annusarle i piedi ancora avvolti nei calzini colorati che era solita indossare ed il solletico che le provocava la destava dai suoi pensieri, o dal suo sonno, istantaneamente. Raccolti i capelli in una confusionaria coda di cavallo si alzava dal letto afferrando la sottana di seta color perla lasciata al mattino sotto al cuscino. Era l'unico indumento capace di farla sentire femminile e sensuale allo stesso tempo. Non le stringeva i fianchi e le cadeva morbida senza provocarle i pruriti che i maglioni son soliti suscitare, né i segni che i reggiseni lasciano sul busto.

Dava da mangiare a Diego riempendo per lui una ciotola ricavata da un sottovaso rimasto senza vaso. Vaso rimasto anch'esso solo dopo la scomparsa dell'ultimo cactus acquistato ad un mercatino vintage per finanziare il progetto artistico di coetanei conosciuti ad una mostra.

Un piatto di legumi speziati e delle verdure erano la cena che spesso preparava per sé. Ne metteva sul fuoco una doppia porzione, tornava in camera a prendere il telefono e faceva due squilli che sentiva interrompersi pur lasciando il telefono cadere sul letto. Il cortile interno del condominio in cui viveva funzionava da amplificatore per poter sentire i rumori nelle case dei vicini.

Flaminia impiegava il tempo necessario per agganciare la chiamata, prendere le chiavi di casa e fare di corsa due piani di scale in discesa per raggiungere un consumato tappeto con su scritto "Welcome". Diego faceva giusto un abbaio, sembrava quasi annoiato da quella tradizione. Lasciata accostata la porta, Alice andava in bagno a lavarsi le mani mentre la sua migliore amica portava in tavola due ciotole rimediate nello scolapiatti sopra al lavandino. Era sempre pieno di stoviglie lavate di fretta ma strofinate per bene che non aveva mai il tempo di riordinare dalla semplice dispensa composta da sole due mensole fissate alla meno peggio sopra al piccolo tavolo di legno.

Mangiavano con calma quasi in silenzio, impilavano i due piatti l'uno sopra l'altro per poi riporli nel lavandino. Era ormai consuetudine preparare dell'acqua calda per il momento successivo, quello che le vedeva sedute nel terrazzino della cucina. Era grande due mattonelle per sei, abbastanza per accogliere due cuscini e le loro gambe semi distese coperte da un plaid caldo.


Era allora che iniziavano a parlarsi, aggiornandosi su quanto successo nel tempo in cui non si erano viste. Rimanevano lì fintanto che le luci del palazzo che affacciava sul cortile interno non si spegnevano. Solo allora si alzavano e, non prima di aver sciacquato le tazze appena utilizzate, si salutavano senza darsi appuntamento alcuno. Un bacio lieve sui capelli arruffati bastava per augurarsi una buonanotte.


Al mattino non era poi così difficile svegliarsi. Ad Alice piaceva camminare nel silenzio di una città ancora non completamente destatasi dalla notte appena trascorsa. Le piaceva il fresco del mattino, tornare a casa con le guance arrossate dal freddo, da scaldare con le mani tenute al caldo nelle tasche della giacca. Quella giacca che le stava così grande indosso che sarebbe dovuta diventare il doppio per starci il giusto. Quella giacca che era di suo padre, a cui l'aveva sottratta un giorno in cui stavan lì a ripulir gli armadi dai vecchi indumenti di cui si eran scordati, indumenti neppure un poco consumati.


"Vorrei solo regalarti un biglietto ed andare ad un concerto con te, vorrei solo commuovermi mentre salto e stringerti la mano mentre canto."


recitava il biglietto appena estratto dalla tasca.


 
 
 

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