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Inciso intriso di intènsa intésa

  • Immagine del redattore: Virginia Barchi
    Virginia Barchi
  • 5 feb 2018
  • Tempo di lettura: 12 min

Sedeva sulla sua poltrona, le cui assi di legno erano rivestite da cuscini bianchi a tratti macchiati dalle orme grigiastre di qualche gatto, o forse del suo stesso cane. Aspettava che il sole si levasse ancora un poco, che iniziasse a scaldarle i piedi infreddoliti che era solita avere. Avrebbe poi preso coraggio per aprire qualche libro e tornare a studiare, per immergersi progressivamente in una quotidianità che sentiva ormai lontana ma che era già alle porte, di nuovo. Come ogni settembre.

Aveva col tempo imparato, come i bambini che imparano ad entrare in acqua pian piano, volgendo le spalle alle onde che provino ad intimidirli, quasi a ricacciarli a riva. Come quei bambini che raccoglievano manciate d’acqua per bagnarsi la nuca ed adattarsi al freddo di quella sulla loro pelle scaldata dal sole che li aveva protetti mentre costruivano castelli di sabbia. Come quei bambini che immergevano le mani in acqua, e poi ancora fino a bagnarsi i polsi. Ma tornare a quella routine, fatta di sveglie presto e precoci buonanotte, di studio ininterrotto, alla fine del quale le natiche prendevano la forma della sedia, era difficile. Soprattutto dopo un’estate dinamica, per quanto non esageratamente movimentata, come quella che stava volgendo al termine.


Tornata a prender posto su quella poltrona nel pomeriggio dopo essersi occupata dei suoi doveri, prese di nuovo coraggio e si alzò, giusto in tempo per ricordarsi che era quasi già tardi; Ettore doveva essere portato fuori. Prese con sé il telefono e le chiavi di casa. Il guinzaglio non serviva, nel centro storico il traffico era limitato ed anche fosse passata un’automobile, Ettore, memore della sventurata volta in cui stava per essere investito da un’auto dei carabinieri in corsa lungo la strada principale del paese, non avrebbe di certo tardato a schivarla, accostandosi al muro il più possibile.


Scendendo per le scalette in pietra che conducevano alla strada percorribile anche in macchina, si fermò a salutare educatamente la sua vicina, affacciata come ogni mattina al balconcino da cui Toby era solito salutare Ettore con un chiassoso abbaio a cui quest’ultimo di rado rispondeva, preso com’era dal gatto nero che gli camminava davanti con gesto di sfida facendo ondulare la coda davanti al suo viso.

Ettore le portò un sassolino da lanciargli, e lei già sapeva che stancandosi prima del previsto, sarebbe stati costretti a rientrare prima a casa. Eppure lei, per quanto quel caldo la costringesse molto volentieri a rimanere al fresco mantenuto dai muri spessi di quella casa, avrebbe avuto piacere a proseguire oltre.

Mentre giocavano, il telefono abbandonato su un muretto insieme alle chiavi di casa iniziò a squillare. Era Matteo, chiamava per delle indicazioni. In sella alla sua moto era arrivato nel centro di quella cittadella, non sapendo di aver oltrepassato il punto in cui avrebbe potuto lasciare la moto per poi raggiungere casa di Cleopatra. Pensando si fossero capiti, la ragazza tornò a giocare con Ettore, che insistente sventolava la sua coda folta in cerca di attenzioni, mentre sperava quel gioco potesse non finire mai.

Il telefono squillò di nuovo. Dopo aver trascinato il dito verso la cornetta verde le giunse all’orecchio la voce di Matteo che ancora in sella alla sua moto e con il casco in testa, le chiedeva ora indicazioni a partire da un’altra porta della città. La scena si ripeté quando Matteo, giunto in Piazza Augusto Vera, fece l’ultimo tentativo per capire come raggiungerla.


Quando furono finalmente riuniti, sorse una preoccupazione. Matteo non sopportava l’idea di lasciare la sua Morini color cioccolato troppo lontano da casa. Perciò decise di affrontare l’ultima salita ed accompagnare il suo gioiellino il più vicino possibile alla casa. Una volta entrato Matteo si stupì della vista che si poteva godere dalla terrazza. La luce del sole sarebbe stata ancora lì per un poco, avrebbe dato a Matteo il giusto tempo per riprendersi dopo quella lunga giornata di viaggio. Così decisero di prendersela con calma. Cleopatra invitò Matteo a prendere posto sulla stessa sdraio da cui si era allontanata una ventina di minuti prima. Tornò a sedervisi anche lei, e gli portò un cestino di prugne dell’albero che faceva loro ombra.

Goderono del silenzio che avvolgeva quel luogo, in cui ovattate le parole sembravano farsi cenno di abbassare il tono l’un'altra, come a suggerirsi di apprezzare la bellezza di quell’ambiente, come ad inibire ogni forma di egoismo. Se ne stavano lì, senza fretta a guardare il cielo, senza affanno per quel che avrebbero poi fatto dopo, senza preoccupazione alcuna, sospesi in quel giardino pensile ad indicare i monti lontani, a ridere di un paio di calzini, a parlare di viaggi e buoni propositi.


Si raccontarono dei giorni trascorsi dall’ultima volta in cui si erano incontrati. Cleopatra ricordava bene quel giorno, giorno in cui rientrava stanca e sporca da un’esperienza in mezzo ai boschi. Matteo si era fatto trovare lì a salutare, tra gli altri, anche lei, che nell’abbracciarlo aveva trovato nella sua mano un dono tanto atteso e causa del sorriso a cui lui aveva prontamente risposto.

Matteo voleva mostrarle com’era stato arrivare da lei, come se volesse giustificare chi fosse grazie al racconto dei momenti che aveva trascorso da pochi giorni a quella parte. Delicatamente estrasse quindi dalla sua custodia nera la sua macchina fotografica, applicando sulla chiusura una pressione tale con le dita da far scivolare l’una sull’altra le due parti in plastica che la componevano, disturbando per un istante solo quel silenzio con il piccolo schiocco che composero.


Mentre un leggero venticello passava, infilandosi sotto la lunga gonna che, con un’attenzione femminile solitamente a lei estranea, Cleopatra aveva deciso di indossare, le foto scorrevano su quel piccolo schermo illuminato. I girasoli più di tutti le piacquero, eppure Matteo con molta enfasi le mostrò una foto di cui era molto soddisfatto; le spighe di grano mosse dal vento, lieve come quello che percepivano ora sulla loro pelle, sembravano ancora tremare in quella foto per cui Cleopatra rivolse a lui dei sinceri complimenti, riconoscendo la sua gran dote.

Eppure Matteo notava in alcune di quelle foto dei difetti che si era riproposto di modificare una volta a casa. Pur sapendo che la post-produzione era un’opzione, avrebbe voluto imparare le basi per poter scattare foto che potessero, già a vederle in quel piccolo schermo, lasciarlo soddisfatto dei suoi tentativi di documentare viaggi improvvisati come quello. Avrebbe voluto imparare a gestire ogni aspetto di una fotografia per rappresentare al meglio la realtà che gli si presentava di volta in volta davanti, a partire dal ritratto di quel monte che era uno dei suoi preferiti, di cui avrebbe voluto ritrarre la bianca cima in modo delineato e pulito.


Da lì a trasformare quella seduta in un’introduzione alla fotografia fu un attimo. Cleopatra sfoderò tutte le sue conoscenze, spiegando a Matteo quali parametri fosse necessario regolare per poter scattare una foto. Quasi le dispiacque dover arrivare al limite oltre il quale le sue conoscenze non arrivavano, eppure era contenta di aver potuto condividere con lui tutto ciò che con gli anni, da autodidatta, aveva imparato.


Il sole era prossimo a tramontare, tanto che si era già nascosto alla loro vista quando, arrivati nel punto più alto del paese, si affacciarono sul parapetto ad osservare il verde tipico di quelle colline umbre. Ettore non fece gustar loro neanche un soffio di quel vento rinfrescatosi per l’ora, che attirò l’attenzione su di lui, facendo notare a Matteo il sasso che aveva trovato. Era chiaro che volesse giocare, ancora. L’accondiscendenza del ragazzo derivava dall’incapacità di negargli un così umile sforzo. Tra una battuta ed un'altra, Ettore si era iniziato a stancare, Matteo era riuscito a fotografare il cartello che indicava che quella che stavano percorrendo era Via del Duomo e Cleopatra aveva deciso di raccontare al suo amico un dettaglio inutile di quella città. Sarebbe stata il primo di una lunga serie, eppure era una sua caratteristica il saper notare dettagli che a molti sarebbero sembrati superflui. Era una dote di cui lei aveva paura perché era convinta potesse annoiare, alla lunga, i suoi interlocutori e che aveva rafforzato molto anche grazie alle foto che le capitava di scattate in giro, quando puntando l’obiettivo col massimo ingrandimento verso i palazzi di quella città finiva per notarne ogni singola mattonella. Gli raccontò di una finestra al secondo piano che affacciava su un cortile interno poco ampio e molto alto, e di come la luce fosse bella quando al tramonto, si riparava dagli sguardi indiscreti dei passanti proprio dentro a quel cortile interno.


Aspettarono che Matteo uscisse soddisfatto dai continui tentativi che fece per trasformare in pixels la luce di quel lampione che emetteva una luce calda potente abbastanza per illuminare, con l’aiuto dell’ultima luce della giornata, l’angolo di quella piazza in cui era ubicato. Tanto più Matteo continuava a ripetere quanto quel tempo fosse sprecato, tanto più Cleopatra rimaneva in silenzio, per non assecondare quel gioco che non avrebbe fatto altro che ledere la sua vacillante autostima.


Avevano affrontato quell’argomento già quando, sdraiati sulle poltrone davanti al panorama mozzafiato di quella terrazza, Matteo aveva chiuso gli occhi, fingendosi in uno studio di uno psicanalista, lasciando che la sua amica lo guidasse, senza inquinare in alcun modo, lui stesso lo avrebbe ammesso poi, quel suo momento di riflessione. Cleopatra era arrivata al punto, dopo mesi di riscontri positivi, di attribuirsi questa grande dote, ed ogni volta lo ripeteva; non faceva ciò per convincere qualcuno della sua opinione, solo per fare in modo che i suoi amici riuscissero ad interloquire con loro stessi, inducendo loro in conversazioni in cui lei, per una necessità che era diventata una sua virtù, aveva imparato a calarsi, trascinandosi dietro quella parte di sé con cui temeva di doversi confrontare. Aveva scoperto che, come tutte le cose, anche quel processo aveva bisogno di un ambiente consono alla buona riuscita, ed aveva per ciò scoperto che alla costruzione di quell’ambiente era necessaria, innanzitutto, una serenità che era stata costretta a ricercare, col fervore di chi perde qualcosa in casa propria ed inizia a cercarla in fondo a cassetti infarciti di cianfrusaglie o nelle tasche di qualche vecchia giacca in disuso.


Era già buio quando si infilarono in un vicolo in cui, contro ogni legge della fisica, era finita una macchina, parcheggiata a ridosso del muro dirimpetto ad un alto palazzo la cui facciata, timida si nascondeva sotto una veste di piante rampicanti. Due archi l’uno sopra l’altro, un altro inutile dettaglio che Cleopatra fece notare a Matteo, mentre scendevano per quella strada in cui ricordava di aver scattato belle foto nella primavera di qualche anno prima. Ettore, al comando vocale della sua padrona, si trattenne dal correr dietro ad ognuno dei numerosi gatti che sorvegliavano il vicolo. Una piccola biscia passò loro davanti dopo che ebbero superato il cancello di un giardino privato che a Cleopatra piaceva molto, per quella sua vasca piena d’acqua in cui le anfore di ceramica di riflettevano, anche ora che l’unica luce che rendeva loro possibile quella visione era quella della luna. Luna che non ancora alta in cielo, rese difficile a Matteo il ritratto di una composizione che lo colpì tanto da farlo inginocchiare. Ed in tale posizione rimase a cercare di capire come gestire al meglio, memore delle tecniche appena apprese, la poca luce che quella lampadina, vestita di un lampione in ferro battuto, emanava, costruendo una scena che avrebbe di certo potuto rimandare i nostri protagonisti al ricordo di qualche teatro di nicchia troppo squattrinato per potersi permettere oggetti di scena che superassero in sfarzo quella modesta scenografia.


Proseguirono oltre. Stavolta fu Cleopatra a voler prendersi del tempo, eppure non ne uscì soddisfatta; la qualità della sua attrezzatura non le permetteva di scattare come avrebbe voluto con quelle condizioni di luminosità. Passando davanti alla chiesa sottostante il Teatro Sociale, scoprirono di essere complementari nei gusti quando Matteo descrisse la bellezza che trovava nella luce calda che illuminava quei mattoni solidamente adesi l’uno all’altro sulla facciata della chiesa. Di risposta Cleopatra gli fece notare le ombre che la luce generava dagli elementi decorativi che, spogli di quelle linee scure, non avrebbero dato un contributo decorativo altrettanto piacevole a quell’edificio.


Quando ebbero finito di visitare i luoghi d’interesse di quella città, si ritrovarono nel punto della città opposto al locale che avevano scelto per mangiare. Così la attraversarono di nuovo, in un sali e scendi di vicoli ancora inesplorati. Vicoli stretti e vuoti come la maggior parte di quelli che avevano sino a quel momento riempito coi loro discorsi variegati, vicoli in cui Cleopatra si era premurata di far notare ogni dettaglio che le passasse per la testa. Quella visita fu tanto dettagliata da condurre Matteo anche in cortili interni di cui probabilmente non avrebbe immaginato l’esistenza oltre quelle porte scalfite dal tempo. Vi entravano silenziosi ma non furtivi, certi di curare abbastanza la discrezione della loro presenza, così da non porsi il problema di poter disturbare. E su quei cortili le porte delle case aperte; come a lasciare al vento la libertà di rinfrescare gli animi appesantiti dal caldo estivo di chi vi abitava, come a lasciare la libertà alla luce di uscire, per regalare a quei due giovani amici la ricompensa di tanta educata curiosità.


La pizza che mangiarono, con la calma che quel luogo dalla pareti colorate induceva, fu di loro gradimento. Si alzarono da tavola e pagarono il conto. Uscirono dal locale passeggiando come avevano fatto fino a quel momento, l’uno accanto all’altra, con la differenza che ora Ettore era costretto al guinzaglio. Guinzaglio che, per qualche sconosciuta ragione, ora era in mano di Matteo che non avendo mai posseduto un cane da compagnia, si divertiva a scoprire il meccanismo che si celava dietro a quell’oggetto così “elettronico”.


Si dà il caso che Cleopatra uscendo di casa avesse deciso, prima di chiudere lo zaino che usava da vent’anni come borsa, di inserirvi le chiavi di un palazzo storico non lontano da lì. Fu per questo che, prima di rientrare fecero una deviazione. La scalinata girava a destra prima di terminare in uno spiazzo su cui imponente si ergeva un grande portone verde. La visita guidata tra le stanze di quell’edificio fu arricchita da una confessione che Cleopatra giustificò delineando il profilo del soggetto di quella notizia eclatante. L’allora proprietario di quella casa era un medico che amava dipingere e fotografare, era un uomo in cui lei vedeva l’esempio perfetto per la figura che lei stessa aspirava ad essere un giorno. Lo stesso Matteo si rispecchiava molto in quel personaggio, pur avendo potuto conoscere quel personaggio solo per pochi istanti, nel tempo che aveva impiegato a sfogliare qualche rivista sulle tecniche di pittura ed a leggere distrattamente i titoli di alcuni dei libri che trovarono nel piccolo studio.




Nell’insonne notte trascorsa senza alcun tormento, Matteo, glielo confessò poi mentre gustavano in compagnia la colazione, aveva progettato alcune modifiche da attuare per migliorare quella struttura. Cleopatra se ne stupì, e quel tempo impiegato a fantasticare su qualcosa a cui lei era molto legata, pur essendo così distante da Matteo che ne era uscito ugualmente affascinato, le strappò un sorriso. Piccole cose da niente che la rendevano fiera dell’investimento che faceva ogni giorno, confermavano ed accrescevano il valore di quell’amicizia.


La notte insonne di Matteo seguì ad altre profonde conversazioni che furono in grado, nonostante la stanchezza, di tenere in piedi quando, infilate le braccia nelle maniche dei loro maglioni estivi, presero posto nello stesso angolo di giardino che li aveva accolti poche ore prima. Ognuno di loro teneva tra le mani un calice di vino bianco accuratamente selezionato nella grotta sottostante la casa ben fornita di ogni tipo di bottiglia. Era un altro luogo in cui fantasticavano di aprire un locale, come lo era stata la cantina del palazzo storico che avevano poc’anzi visitato, il cui ipotetico nome, avanzato di Cleopatra, piacque molto a Matteo.


Le riferì il suo gradimento insieme ai progetti per la casa; come al resto, aveva avuto modo di pensarci nella notte trascorsa a rigirarsi nel bianco del sacco-lenzuolo che aveva con sè. Notte in cui Ettore gli aveva fatto visita; fatto questo che era stato motivo di gran vanto agli occhi di Cleopatra, gelosa di come il suo cane si fosse affezionato tanto al suo amico pur avendolo appena conosciuto. Ma in fondo lei ne era contenta e tale evento fu un’ulteriore prova che poteva fidarsi davvero.


L’indomani Cleopatra si svegliò presto, in silenzio scese la grande scala di legno che le ricordava il pontile di un galeone e, dopo aver accompagnato Ettore a fare i suoi bisogni, apparecchiò il tavolo per la colazione all’ombra del prugno che quasi con egoismo allungava i suoi rami a coprire quel panorama che lasciava scorgere, tra un monte ed un altro, una sonnecchiosa foschia che non si era ancora levata. Attese che Matteo si svegliasse, lasciando integro il silenzio che regnava in quel luogo così isolato per quanto centrale. Preparò per lui le torte fatte in casa, disponendole accanto a marmellate e prugne. Preparò per lui il cappuccino, prese per sé un caffè, e si concessero di vivere tra leggeri scambi di battute, un momento di quiete, cullati da una musica di sottofondo che li raggiungeva, ansiosa di non essere all’altezza. Avrebbero voluto che ogni momento della loro vita fosse accompagnato da una musica, di certo avrebbero potuto vivere in maniera del tutto amplificata le loro emozioni. Per suggellare quell’amicizia, Cleopatra era convinta sarebbe stato necessario vivere l’esperienza di un concerto insieme. Si sarebbe adoperata a cercarne.


Con aria di sfida Matteo chiese a Cleopatra di suonare ancora una volta il motivetto che le aveva insegnato il giorno prima. Lei non suonava a quattro mani da tempo, da quando dieci anni prima aveva fatto il suo ultimo saggio di pianoforte. Eppure, preso posto su quello sgabello nero che più volte, vestita di qualunque emozione, l’aveva accolta perché potesse riversare su quei tasti ogni richiesta, ogni suo sfogo, a differenza di quando l’aveva provato la prima volta, le riuscì. Matteo stupito pensò che doveva essersi esercitata nella notte, con la sordina inserita. Allora suonarono per quel breve minuto, e Cleopatra ne sorrise, al pensiero di quanto fosse speciale per lei, al pari dell’unica persona con cui aveva suonato a quattro mani, sul pianoforte a coda nero del teatro della scuola, quel suo amico.


La vestizione del cavaliere fu lunga il tempo necessario per tirare ad Ettore l’ennesimo sasso trovato in terra. Eppure si interruppe prima che Matteo potesse indossare l’elmo sopra la bandana, per far sì che i due si scambiassero un abbraccio, suggello del bene che avevano dimostrato di volersi in quella parentesi di vita trascorsa insieme.


Così si salutarono ai piedi di quel vicolo, con l’ultimo bacio posato sul nero di quel casco integrale, con quella diapositiva rubata nel portafoglio e, dallo specchietto retrovisore, un ultimo saluto rivolto ad Ettore, che ancora seguiva il rombo del motociclo ormai scomparso alla sua vista, cercando nel vuoto la sagoma di quel suo nuovo amico.


a Vittorio


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